Rione Ferrovia è un quartiere triste. Questa è la prima impressione che ricevo, tornando in questo quartiere dopo molto tempo. Ricordavo un luogo pieno di vita in cui la gente riempiva le strade del quartiere, con allegria e gentilezza verso i”forestieri”. Cioè quelli che venivano dalla città. Già perché gli abitanti di questo insieme di case si sentivano e si sentono estranei alla città della quale fanno parte. Tale era i loro senso di lontananza dal centro che si diceva e si dice ancora, andiamo ad Avellino, come se si dovesse andare in un’ altra città. Torno ora e lo trovo triste e vuoto. Poca gente per strada, sparita l’ allegria che si respirava un tempo. Rione Ferrovia è triste perché sente che sta morendo. Già. Il quartiere sente che il suo destino è segnato, che le prospettive sono quelle di una lenta agonia, intorno alla stazione ferroviaria. Il rione, nato e cresciuto attorno allo scalo ferroviario della città, muore con esso. Condivide la sorte, decisa da chissà chi e chissà dove, di questa piccola stazione di provincia. Entro, in punta di piedi, come si fa entrando nella stanza di un ammalato grave, nell’atrio della stazione. Chiusa l’edicola. Chiuso, per lavori mai iniziati, il piccolo bar. Do un’ occhiata al malinconico tabellone degli arrivi e partenze. Quattro, forse cinque treni al giorno per Benevento, due per Salerno. E questo è tutto. Nessuno sulle banchine, nessun treno in vista. Soli il bigliettaio, fedele al suo orario di lavoro che attende viaggiatori che non arrivano. Da qui, ormai, partono poche decine di persone al giorno. Ritorno sul piazzale dove ho sempre visto gruppi di persone, impegnate in vivaci discussioni. Più nessuno. Solo autobus arrivati al capolinea o auto che passano veloci e noncuranti. Non è stato sempre così. Anzi. Negli anni novanta lo scalo merci di Avellino era il secondo in Campania per volume di traffico. Poi il lento declino fino alla chiusura dell’impianto decretata nel duemiladodici. La stazione è stata riaperta, a furor di popolo e sono state riattivate almeno le poche corse per Benevento. Ma,ormai, il suo destino era segnato, sconfitta dalla civiltà dell’automobile. Insieme allo scalo ferroviario è andato declinando anche il quartiere nato con e attorno alla stazione. Qui abitavano i ferrovieri e gli addetti allo scalo merci. Ora ci abitano solo pensionati. Ma la Ferrovia, come abitualmente viene chiamato il rione è tristemente famoso per un’altra emergenza che dura da più di venti anni e che durerà per almeno altrettanti: l’Isochimica. Quello che in questa fabbrica è avvenuto rappresenta uno degli esempi più impressionanti della politica industriale degli ultimi decenni. In questi capannoni, è storia nota, più di quattrocento operai hanno scoibentato i vagoni ferroviari. Hanno, cioè, tolto il mortale amianto dai treni italiani. Si lavorava, come è stato accertato, anche a mani nude e senza alcun tipo di protezione. Nessuno sapeva che, a distanza di venti anni, le pagliuzze di amianto che volavano libere nell’aria avrebbero rivelato la loro mortale pericolosità. Negli anni novanta nessuno aprì bocca. Nessuno protestò. L’Asl non vide nulla. L’ingegner Graziano, il padrone della fabbrica, accolto nei migliori salotti di Avellino era riverito come un benefattore. Tutti gli erano amici,di tutti era amico. Poi la storia è andata come fiumi di inchiostro ci hanno rivelato. L’Isochimica è stata chiusa, si badi, da un giudice di Firenze. Ora tutti i politici, a scadenza fissa, si affannano a promettere la bonifica. Ma nessuno dice quando e con quali soldi questo avverrà. In perfetta solitudine faccio il mio pellegrinaggio civile alla fabbrica. Intorno tutto è desolazione e silenzio. Anche la rotonda stradale posta sull’incrocio che porta all’ Isochimica è, come il resto, abbandonata. Sul cancello d’ingresso, ricoperto di rovi, una piccola, modesta targa ricorda chi qui ha lavorato e quelli, nove per ora, che per l’Isochimica sono morti. Ma il quartiere è qui a due passi. Per anni le fibre di amianto hanno volteggiato, indisturbate, nell’aria, posandosi,poi, tutto intorno. Ora, rione Ferrovia ha paura che questa bomba ad orologeria, trascorso il suo periodo di latenza, riveli i suoi micidiali effetti. Nulla, tuttavia, accade. All’ ingresso della fabbrica un tabellone informa che è in corso un progetto di messa in sicurezza. Al Comune ci informano che già tre interventi sono stati effettuati e che un ulteriore intervento sarà effettuato non appena l’ ASL avrà dato il suo benestare. Per lo spaventato quartiere nulla al momento sembra essere stato previsto e, comunque, non lo screening di massa che pure era stato chiesto dagli abitanti. Torno indietro e rigiro per le strade. Entro nella chiesa di San Francesco a rivedere lo straordinario murale di Ettore de Conciliis che tanto scalpore provocò quando fu inaugurato. Oggi, mi sembra che tutta l’umanità dolente, ritratta sul muro della chiesa, sia il simbolo di quanti hanno lottato e perso la battaglia per un lavoro che non implicasse, tra i suoi obblighi, anche quello di perdere la vita. Lentamente, a piedi, torno alla stazione. Intorno negozi che avevo visto aperti e luccicanti ancora pochi mesi fa mostrano le vetrine chiuse, sbarrate. No, non è solo la crisi che qui, come altrove, ha colpito duro. Queste chiuse vetrine sono, anch’esse, il segnale della inevitabile decadenza del quartiere. Un altro segnale è che mancano, del tutto, nuove costruzioni, a differenza di quanto avviene in altre parti della città. Nel rione, dopo un insediamente degli anni novanta di alcune cooperative, non si è costruito più nulla e di certo non aiuta il viadotto della Bonatti che corre proprio sopra le teste degli abitanti. Un destino che a me sembra segnato, ineluttabile. Ma almeno uno che la pensa diversamente c’è. E’ Pietro Mitrione, ex ferroviere e presidente dell’ associazione Inlocomotivi che da anni si batte per la riapertura della tratta Avellino – Rocchetta Sant’ Antonio. “ E’ tutta questione di prospettive, mi dice. Bisogna pensare a lungo termine, non traguardare solo il nostro naso. E’ bastato che il neo presidente della Regione Vincenzo De Luca parlasse dell’ elettrificazione della linea Avellino Salerno per riaprire una discussione che sembrava morta per sempre.” Del resto opportunità per ribaltare una sorte che sembra segnata non mancano. Occorre,però, saperle e volerle cogliere. In questo senso un segnale sembra proprio essere il completamento del raccordo ferroviario a servizio del nucleo industriale di Pianodardine. Dopo venti anni è stato,finalmente, completato il tratto di binario mancante. Un primato assoluto. Dopo venti anni si è completato un pezzo di binario lungo un metro, o poco meno. E’ il segno che qualcosa può cambiare anche in un nucleo industriale come quello della città capoluogo che non gode certo di ottima salute. “Un altro segnale, aggiunge Mitrione, è il fatto che proprio davanti alla stazione si attesta uno dei terminal della nuova metropolitana leggera di Avellino. Questo significa più gente che utilizza il mezzo pubblico, maggiore facilità di accesso alla stazione.” Un altro segnale di rilancio della stazione e di rione Ferrovia può venire dalla ipotizzata costruzione di un tratto di binario dalla stazione di Fisciano fino all’ università. Avellino, infatti, è baricentrica rispetto alle due Università, quella di Fisciano, appunto e quella di Benevento. “ Dalla stazione, prosegue, con grande ottimismo Pietro Mitrione, si potrà raggiungere anche la nuova linea ad alta capacità Napoli Bari e il polo logistico previsto a Flumeri”. Al momento, però, tutto questo appare fantascienza. Saranno gli anni che verranno a dire se tutti, o almeno una parte, di questi progetti si realizzeranno. Oggi manca la visione strategica, la capacità di guardare lontano nella compagine che guida il Comune. Non si vedono scelte operative che traguardino verso il futuro. Quello che appare, però, moralmente dovuto è una sorta di ristoro per tutto ciò che gli abitanti di Rione Ferrovia hanno dovuto sopportare in questi anni.