Mi aggiro,spaesato, tra i resti di quelli che furono i quartieri primigeni di Avellino: San Leonardo, Sant Antonio Abate, Fornelle. Qui è nata ed ha vissuto per lunghi secoli la prima comunità di Avellino. Qui hanno vissuto, lavorato, stentato la vita e qui sono morti i nostri antenati. Pochissime tracce di questa intensa vita sono rimaste. Mi avvicino alla chiesa di San Gennaro, meglio conosciuta come Madonna de La Salette, oggi risollevata dall’abbandono in cui era caduta dalla comunità ucraina in città. E’ domenica e si dice messa. Ovviamente secondo il rito ortodosso. Entro e scopro una religiosità del tutto diversa da quella cui siamo abituati. Diverso, certo, il rito ma diverso il modo di vivere la funzione religiosa. Ci sono in prevalenza donne, pochissimi gli uomini ancora meno i bambini. Tutti partecipano con una intensità che non vedevo da tempo. Mentre la funzione prosegue mi distraggo a guardare le mani dei presenti. Sono tutte segnate dalla fatica di chi è abituato a lavori manuali per vivere. Forti, dure arrossate dal lavoro. La piccola chiesa che fu uno dei punti centrali della religiosità di questo quartiere ormai scomparso è rinata. Non è merito nostro ma di una comunità a cui questa chiesa è stata affidata dalla Curia di Avellino, per sottrarla all’ormai certa decadenza. La funzione finisce e mi ritrovo in strada, al sole a due passi dalla fontana di Grimoaldo, meglio nota col nome di fontana Tecta. Mi rendo conto di non sapere nulla della storia e della vita di questa zona. Ho bisogno di una guida e la trovo in uno dei più appassionati conoscitori della nostra dimenticata storia, racchiusa, proprio qui, in questo fazzoletto di poche centinaia di metri quadrati. La mia guida è Armando Montefusco che conosce ogni pietra in questa zona. Volentieri Armando mi raggiunge e mi guida in questa ricerca di una storia minore,ormai perduta ma che è pur sempre la nostra storia. A passo lento percorriamo questa strada del fondovalle Fenestrelle che una volta era la Via Salernitana, l’unico, obbligato collegamento con la città di Salerno. Oggi è una stradina poco frequentata, dominata dall’ombra minacciosa del Mercatone e sconvolta dai lavori in atto allo sbocco del “ sottopasso”. Guardo verso il ponte della Ferriera. Da questo punto di osservazione si scorge il punto di sbocco del sottopasso. Non posso fare a meno di notare che il tunnel esce proprio accanto al pilone di fondazione del ponte. Per l’ennesima volta mi domando se i tecnici abbiano calcolato attentamente il rischio che i lavori di scavo provochino un danno irrimediabile al ponte. Oggi, però, non sono qui per questo. Armando mi riscuote dai miei pensieri e mi indica un rudere seminascosto dai rovi. “ Guarda, mi dice , questi sono i resti del monastero benedettino di San Leonardo. Il monastero nacque come dipendenza dell’abbazia di Cava dei Tirreni che era, negli anni attorno al milleduecento, ricca e potente.” Quello che rimane oggi è il rudere di una misera chiesetta, devastato, come tutto il resto in questa zona in ultimo dal terremoto del millenovecentottanta. “Io, prosegue Armando, ho potuto vederla all’interno dopo il terremoto. Non c‘era più niente, era stata completamente spogliata. Dopo di allora più nulla è accaduto. La natura, i rovi, si sono lentamente impossessati di tutto lo spazio attorno ed,ormai, non è visibile se non qualche pezzo di muro” Proprio attorno a noi c’era il quartiere omonimo, fino al millesettecento una dipendenza di Sant’Antonio Abate poi, nei secoli successivi, lentamente decaduto. Mi guardo attorno, non una sola pietra ricorda questo passato che vive solo nelle parole di Armando. C’è qualche edificio ricostruito fuori sito, dopo il terremoto e niente altro che ricordi la vita che pure è stata. Alzo lo sguardo ad incontrare la Torre dell’Orologio, il simbolo della città. Ai suoi piedi Rampa Macello che deve il suo nome al Macello che qui sorgeva per toglierlo dallo sguardo della borghesia che allora nasceva e che decise di trasferirlo” in un luogo incommodo” in modo da nasconderne la vista e le puzze alla popolazione raggruppata attorno all’edificio della Dogana, proprio quello attorno a cui si affanna un pezzo della città che si ostina a credere che esista una possibilità di recuperare alla vita un edificio che ha segnato la vita dell’Avellino di un tempo. Lentamente siamo giunti alla Fontana di Grimoaldo che gli avellinesi conoscono col nome di Fontana Tecta. La fontana non è visibile, ingabbiata com’è da una recinzione. Dovrebbe trattarsi dell’annunciato restauro. In verità non si vede anima viva che ci lavori. Alle spalle della fonte un orribile edificio. Dovrebbe trattarsi dei due lavatoi che furono fatti costruire per l’uso della gente del posto. Un restauro fu fatto, alcuni anni fa. Spero che questo nuovo restauro riporti alla luce i vecchi lavatoi e restituisca alla fontana almeno una parte del suo antico aspetto. “ La fontana,incalza Armando, è stato uno dei punti nevralgici del vecchio borgo. Tutti, per una ragione o per l’altra ci passavano o la usavano per le loro attività ed i loro bisogni. E’ dopo la rivoluzione di Masaniello, attorno al milleseicentocinquanta che sorgono i lavatoi. Se guardi in alto, incalza Montefusco, vedrai i resti di quadroni in pietra con figure di animali, oggi, misteriosamente scomparsi” Non è l’unica scomparsa misteriosa. Anche la Fontana dei Tre Cannuoli, a poche decine di metri, è stata depredata, nell’immediato dopo terremoto della scultura che, in alto, la decorava. A decretare la decadenza di San Leonardo e di Sant Antonio Abate, fu una ardita impresa di ingegneria civile, la costruzione, in epoca ottocentesca, del ponte della Ferriera. Era inevitabile che l’abbandono della vecchia Via Salernitana facesse decadere questi due quartieri nei quali, lentamente, silenziosamente andarono a vivere poveri ed emarginati della città. Oggi i figli e i nipoti di quegli emarginati vivono in un altro ghetto: rione Parco. Quanti furono i morti di questo quartiere abbandonato, nel terremoto del millenovecentottanta? Con precisione non lo sa nessuno, giacché nessuno sapeva quanti zingari ed altri poveracci vivevano in queste case fatiscenti, completamente distrutte da quelle terribile scosse. Oggi, lungo il Fenestrelle, altre ricostruzioni fuori sito, da cui salgono rampe di scale che portano su a Via Nappi. A gradoni anche la gran parte di Rampa Macello che porta su alla piazza del Carmine, quasi completamente eliminata ed all’edificio del Comune, bisognoso anch’esso di manutenzione. Lungo questa rampa sorgeva un’altra chiesa di cui non è rimasto nulla: la chiesa di Sant’ Antonio Abate di cui esiste solo la documentazione scritta, ma che era già scomparsa nella prima metà del milleseicento. Il nostro giro nell’ Avellino che fu si avvia alla fine. Attraverso Fosso Santa Lucia, risaliamo a Via Nappi, verso la Fontana dei Tre Cannuoli o di Bellerofonte In quel luogo c’era un semplice abbeveratoio per cavalli e il principe Caracciolo incaricò proprio l’architetto Cosimo Fanzago, di progettare una nuova fontana che desse decoro anche alla piazza dove sorgeva l’edificio della Dogana. Sempre attento Armando Montefusco mi informa che proprio alle spalle della fontana una porticina immette in un sistema di cunicoli entro i quali scorrevano le acque che alimentano, ancora oggi, la fontana. Proprio la statua che dava il nome alla fontana, quella di Bellerofonte, è stata trafugata nei giorni del terremoto ed oggi orna, con molta probabilità, la casa di qualche ricco professionista. Dietro la fontana, anch’essa bisognosa di un accurato restauro, due rampe di scale riconducono alla collina della terra dove è nata la città e dove ormai non si vede più nessuno. Il giro,in compagnia di Armando Montefusco, finisce qui, ancora una volta nella città dei morti e degli scomparsi. L’Avellino dei vivi è da tutt’altra parte, in altri affari affaccendata e non si cura della sua storia passata che può non essere una grande storia ma è sempre la nostra storia.